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Turchia, Neo Ottomanesimo e Profondità Strategica

Immagine del redattore: Stefano Mauro ForlaniStefano Mauro Forlani

Aggiornamento: 18 ott 2021

La politica di Ankara nel terzo decennio del nuovo millennio

Turchia sta lentamente emergendo come potenza regionale del Mediterraneo. Guidata da quasi vent’anni da Raceep Taiyyp Erdogan, si sta affermando con forza e spregiudicatezza su vari teatri di Medio Oriente e Nord Africa. Cosa vuole la Repubblica Turca? Per capirlo occorre conoscerne la storia recente ed i soggetti chiave della sua scena politica: l’AKP, il partito di cui il nuovo sultano fa parte; Ahmed Davutoglu, per anni delfino di Erdogan e teorico della profondità strategica neo-ottomana; il contesto del golpe 2016, dovuto al conflitto tra il presidente e la setta di Fethullah Gulen.


L'AKP è dal 2002 il partito di maggioranza del paese. Islamista, ossia fautore di un islam politico, ha stemperato la sua vena religiosa nei primi anni 2000 per evitare la repressione da parte dell'esercito, fedele erede dei valori laici e occidentali su cui Ataturk fondò la Repubblica Turca. In questi primi dieci anni l'AKP è riuscito a sopravvivere e guadagnare consensi contemporaneamente allo svolgimento di due processi nel paese: quello d'interruzione dell'ingresso nell'UE, arenatosi nel 2011 dopo la firma della convenzione di IstanbuLal per i diritti delle donne – da cui la Turchia s'è ritirata quest'anno e a cui è anche seguito il caso Sofàgate - e quello di silente intrusione di uomini fedeli alla setta islamica di Fethullah Gulen, un predicatore musulmano radicale, inizialmente alleato di Erdogan, nelle istituzioni e nell'esercito laico. Nell'ultimo decennio al potere di Erdogan, (2011-2021) l'AKP ha gettato la maschera di partito non religioso e, erroneamente, questo fatto potrebbe portare a interpretare il golpe del 2016 come l'ennesimo intervento dell'esercito per ripristinare i valori di Kemal Ataturk di laicità e rifiuto di regimi personalistici (sarebbe stato il quinto golpe riuscito dal 1923). Invece, nel 2016, poco rimaneva di laico nell'establishment turco e il fallito coup-d'etat è stato uno scontro tra gli uomini di Gulen e quelli di Erdogan per il controllo della macchina statale. L'attuale presidente ne è uscito vincitore e grazie al pretesto fornitogli dal golpe, è riuscito a trasformare la repubblica parlamentare in presidenziale ed epurare tutti i presunti oppositori da istituzioni e forze armate.



All'oggi, la principale minaccia interna alla posizione di Erdogan consiste nelle conseguenze della pandemia, che ha gettato la Turchia in una crisi economica che rischia di divenire politica e sociale. La lira turca, svalutatasi per anni per attirare investimenti stranieri e contare su manodopera a basso costo, ha portato all'aumento dell'inflazione e, su questa congiuntura, è giunto il COVID19, portando danni socioeconomici che potrebbero costare molto al regime in termini di consenso. Oltretutto nel 2019 l'AKP ha perso le elezioni per Istanbul, confermandosi sì forte nella Turchia continentale e rurale, ma non nella città più ricca, avanzata e popolosa del paese. Questa dunque la situazione interna: il sultano è saldo e la Turchia è sempre meno laica e sempre più islamista, audace e antioccidentale, ma deve reggere alle sfide della pandemia.

Per capire, invece, la politica estera turca bisogna introdurre Ahmet Davutoglu, per anni vice di Erdogan, ex primo ministro e autore di Profondità Strategica, volume del 2001 contenente la linea geopolitica seguita da Erdogan. Per Davutoglu la Turchia è, geopoliticamente parlando, tutto: è uno stato europeo in quanto balcanico, ma anche caucasico, caspico, mediorientale e, per la sua posizione lungo la rotta di Suez, anche del Golfo. È poi l'erede dell’impero Ottomano, per secoli entità statale di riferimento dell’intera ecumene islamica. È poi anche turcofona e turcomanna, quindi legata ai popoli dell’Asia centrale, dai Turkmeni dell’Iran agli Uiguri dello Xinjiang. Questo suo essere paese transcontinentale, nella visione di Davutoglu, pone la Turchia nel mezzo dello scontro tra l'Ovest, gli Stati Uniti, e l’Est, Russia e Cina. Tale collocazione le genera il rischio di rimanere schiacciata tra i blocchi, ma concede anche la possibilità di risultare snodo fondamentale, ed è per vincere su questo punto che entra in campo l’arma migliore che la Turchia sta dimostrando di possedere: una diplomazia abile e acrobatica, ma seria e continuativa e, soprattutto, adiuvata dove serve -e spesso serve- dal secondo esercito NATO per dimensioni.

Giunti ora al presente, un elenco nutrito è il miglior modo per comprendere la pervasività della profondità strategica e su quanti teatri essa sia presente:

- in Afghanistan, un contingente turco rimarrà di stanza all'aeroporto Karzai di Kabul come ultima presenza NATO nel paese, per impedire la totale egemonia dei talebani.

- in Azerbaijan, s'è schierata con Baku, partner nel transito degli idrocarburi del Caspio. I droni turchi sono stati fondamentali per la vittoria azera sugli armeni, sancendo il suo ruolo di arbitro nel Caucaso. - in Siria, per evitare l’unificazione delle aree che i curdi hanno strappato a ISIS in anni di guerra, l’esercito turco e i suoi mercenari hanno occupato territori in Afrin e ridimensionato la presenza di PKK-YPG-PYD nell’area.

- in Iraq, anche qui impegnata nel Kurdistan, in particolare presso Kirkuk, sia per limitare l’influenza delle truppe irachene filoiraniane che la presenza curda, col pretesto della difesa dei turchi iracheni.

- in Palestina, teatro in cui, sin dal caso Mavi Marmara del 2010, sostiene Hamas, partito islamista legato ai Fratelli Musulmani - come l’AKP - nella lotta contro Israele. Tenta così di legittimarsi agli occhi dei musulmani nella difesa dei luoghi santi ottenendo influenza su Gerusalemme, lanciando una sfida ai Sauditi che dal crollo ottomano nel 1917 primeggiano su Medina e La Mecca. - col Qatar, alleato fidato al cui interno detiene basi militari e sostiene la piccola monarchia nelle sue ribellioni - sempre contro i Saud - causate dalla vicinanza di Doha a Teheran. Si dimostra, così, attenta a mantenere alleanze (il mutuo sostegno tra i due stati prosegue dal 2014) ottenendo anche l’appoggio di Al Jazeera, la più famosa emittente mediorientale.

- in Libia, dove s’è posta - sostituendosi all’Italia che nel 1911, con la guerra italo-turca, l'aveva scacciato dalla regione - come protettrice del governo di Tripoli, ruolo che si è guadagnata sul campo combattendo contro Haftar e i russi (avversari anche in Siria). Un protettorato così forte che, dopo la visita di Draghi in aprile al neo governo Dbeibah, Erdogan ha convocato suddetto gabinetto ad Ankara per ottenere resoconti e spiegazioni, dimostrando come Tripoli ora sia una dipendenza turca.

- con l’UE, di cui ha sia disprezzato i valori ritirandosi dalla convenzione Istanbul che inscenando il Sofàgate, sottolineando, così, quanto per la Turchia contino più i singoli paesi europei, rappresentati da Michel del Consiglio Europeo, anziché le istituzioni sovranazionali del continente. È su questi ultimi due punti che giungiamo alle conclusioni, partendo da ciò che più ci riguarda in quanto italiani. Draghi, in aprile e dopo lo scandalo del divano, ha definito “Dittatore” Erdogan, per taluni "una gaffe", appunto per controbattere a questa profondità strategica di Ankara. Perché questo attacco? Certo per la Libia, ma soprattutto perché con essa la Turchia controlla oggi entrambi i rubinetti migratori del Medioriente e dell’Africa, e ricatta l’UE per tenerli chiusi, ottenendo in cambio miliardi.

Tutti questi giochi diplomatici e geopolitici potrebbero essere facilmente ridimensionati solo dagli Stati Uniti, che poco apprezzano gli eccessi di azione dei turchi (ad esempio l’acquisto del sistema contraereo russo S400, in barba all'essere nella NATO), specie se si relazionano e contrattano in autonomia con Russia, Iran e Cina.

Purtroppo per noi, l’appello indiretto di Draghi al contrastare i dittatori cadrà probabilmente nel vuoto grazie ad un ambizioso progetto turco per farsi lasciare mano libera dagli USA: il Canale Istanbul. Questo sarebbe una via d'acqua artificiale che permetterebbe alla US Navy di entrare senza limiti nel Mar Nero - e sfilare innanzi alle coste russe - in quanto i trattati che oggi regolano l'accesso ai Dardanelli glielo impediscono. Per chiarire agli USA la sua volontà di realizzarlo, Erdogan ha difatti arrestato in aprile gli ammiragli contrari al progetto.

La profondità strategica di Ankara è frutto di una visione nata agli inizi del nuovo millennio e attuata con pragmaticità e spregiudicatezza nel corso di questi vent’anni, considerando che è cresciuta più, in termini di PIL, tra il 2000 e il 2018 che tra il 1960 e il 2000. Forte di questo, ella dimostra come diplomazia e strategia siano elementi chiave del successo di uno stato che vuol farsi potenza.


di Stefano Mauro Forlani

 
Fonti:
- Limes, Il Ritorno del Sultano, settembre 2010, Gruppo Editoriale l'Espresso.
- Limes, La Turchia Secondo Erdogan, ottobre 2016, Gruppo Editoriale l'Espresso.
- F. Larrabee, Turkey and Europe in Turkish Foreign Policy in an Age of Uncertainty, 2002, Rand Corporation




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