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X FACTOR E LA PARADOSSALE QUESTIONE DELLE QUOTE ROSA

Immagine del redattore: Giuseppe IrtoGiuseppe Irto

Nei giorni precedenti, il noto talent musicale “X Factor” è stato inondato, soprattutto sui

social network, da critiche che lo accusano di sessismo; queste hanno interessato principalmente i quattro giudici protagonisti dello show: Manuel Agnelli, Emma Marrone, Hell Raton e Mika. In particolare, gli attacchi sono giunti perché, come ha riportato l’agenzia Ansa, tra i dodici concorrenti che hanno superato la prima fase di selezione e sono giunti alle fasi finali, sono presenti soltanto due donne. Per poter, partendo da questo caso specifico, intavolare una riflessione più ampia e dunque avere modo, come spero, di far nascere nel lettore e una serie di interrogativi, è importante capire cosa distingue il format attuale di “X Factor”, rispetto al format dell’anno scorso e degli anni precedenti.


Nelle edizioni passate, i concorrenti finalisti venivano divisi in quattro categorie: under uomini, under donne (per i concorrenti, uomini o donne, con età inferiore ai venticinque anni), over (per i concorrenti sia uomini che donne con età superiore ai venticinque anni) e band. Nella edizione di quest’anno si è deciso di abolire la divisione in categorie, perché? Perché abolire le categorie significa eliminare le barriere che definivano e, quindi, “etichettavano” i concorrenti. Eliminare le categorie ha risposto all’esigenza di inclusività, al voler permettere la partecipazione di concorrenti che non si riconoscono né nell’uno né nell’altro genere, all’evitare il discrimine e favorire l’uguaglianza. A fronte della volontà credo virtuosa dei produttori di ricercare l’uguaglianza (e, senza dubbio, la volontà naturale di allargare la platea degli spettatori dello show), il risultato è stato un netto squilibrio tra concorrenti donne e uomini approdati alle fasi finali che, quindi, ha portato alle accuse di sessismo.



Osservando il caso ed essendo uno studente, mi è subito venuta in mente una lezione di storia contemporanea (che può aiutarci a riflettere sul tema) riguardante la condizione lavorativa delle donne nell’Ottocento. A quel tempo vigeva la “dottrina delle sfere separate”: alle donne spettava il compito di occuparsi della casa e dei figli, mentre agli uomini spettava il lavoro; due ambiti di attività completamente diversi e slegati. La rivoluzione industriale aveva però fatto sì che, se una donna avesse voluto lavorare, avrebbe dovuto allontanarsi da casa; questo era concepito, nel generale racconto sociale, come un problema, la donna non poteva più stare nel suo posto ideale e svolgere i suoi compiti ideali. Ciò toglieva valore alla donna in ambito lavorativo. In più, si teorizzava il “salario di famiglia”: se i proletari e le loro famiglie continuavano a vivere, era perché i loro salari erano già comprensivi di una quota destinata al mantenimento della famiglia stessa. Così il salario della donna era un di più, un’integrazione. L’inevitabile conseguenza fu che alle donne spettavano salari più bassi (integrativi, appunto) e marginali posizioni di lavoro. La donna andava inoltre tutelata dall’uomo dal punto di vista economico (e anche tutelata dal promiscuo e pericoloso luogo di lavoro). Ed ecco che entrò in gioco la legislazione protettiva, serie di misure che avevano l’obiettivo di limitare queste ingiustizie e differenze. Le donne dovevano essere protette… ma protette in quanto inferiori. Secondo J. Scott appunto, “il risultato più sorprendente degli orari standard diversificati per sesso, fu il rafforzamento e l’espansione della divisione sessuale del lavoro”: la volontà di ridurre le disuguaglianze tramite la legislazione protettiva, portò ad una formalizzazione di questa disuguaglianza e, quindi, al suo aumento. Storicamente quindi, queste leggi hanno definitivamente relegato il ruolo lavorativo femminile come secondario.



Seguendo questo filone, si potrebbe concludere che imporre la presenza di un numero minimo di donne nei diversi ambiti lavorativi o rappresentativi (quote rosa) sia qualcosa di sbagliato, creerebbe un discrimine, una tutela. Ma contemporaneamente, tornando al caso di X Factor, succede che, deciso di eliminare questo discrimine, si ripresenta il problema della sproporzione e squilibrio tra maschi e femmine. A questo punto si possono aprire una serie di quesiti e riflessioni, considerando la complessità del problema: è possibile considerare che il risultato squilibrato delle selezioni del talent show sia stato un puro caso, che i giudici abbiano premiato in modo “oggettivo” il talento e che ciò abbia portato a tale esito. Di conseguenza dovremmo poter ammettere che, ipoteticamente, in una edizione successiva, vengano selezionate dieci donne e due uomini. È uno scenario che riusciamo ad immaginare? È anche possibile che i giudici siano convinti di aver scelto in modo oggettivo ma, in qualche modo una tendenza culturale o sociale al preferire i maschi; ciò si può dimostrare? Si hanno dati certi invece sulla diversità di trattamento delle donne in ambito lavorativo e salariale, le donne sono discriminate. Considerato che questa discriminazione ha matrici storiche e strutturali, quanto l’introduzione di misure formali e legislative tende ad attenuare tale discriminazione e quanto invece ad accentuarla? Io non ho una risposta, e voi?

di Giuseppe Irto

Fonte: Agenzia ANSA

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