Nelle ultime settimane si è molto parlato delle conseguenze che porterà la Brexit, non soltanto a livello europeo, ma soprattutto a livello del Regno Unito: la Scozia vuole l’indipendenza e tutti temono si possa trattare dell’inizio di un grande effetto domino che porterà la Gran Bretagna alla frammentazione.
I politologi Wyn-Jones, Henderson e Curtice definiscono la situazione britannica attuale “vacillante”, in quanto stanno calando i cittadini che si definiscono British e stanno aumentando, invece, i gallesi, gli scozzesi e gli inglesi. I tre professori incolpano la Brexit, secondo i quali abbia rafforzato questo fenomeno, ma siamo sicuri si tratti di questo, nel caso della Scozia?
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Ripercorrendo la sua storia, infatti, la terra degli Highlands è costellata da vari tentativi di indipendenza, contrastati da manovre di appropriamento territoriale da parte dell’Inghilterra.
Prendiamo come esempio le guerre di indipendenza, conflitti perdurati dal XIII al XIV secolo, che ci hanno dimostrato, per ben due volte, quanto il popolo di Scozia brami la libertà (e non mi sto solo riferendo al finale di Braveheart di Mel Gibson): la prima, iniziata con la morte di una giovane regina promessa ad un principe inglese e terminata con l’ascesa al trono di Scozia di Robert Bruce e la battaglia di Bannockburn, nel 1314; la seconda, nata da un re troppo giovane per governare e conclusa con l’indipendenza scozzese, che perdurò fino all’ascesa al trono di James I di Scozia, nel 1603, e all’annessione ufficiale al Regno Unito con il Trattato dell’Unione del 1707.
Se pensiamo, però, che le vere richieste di autonomia dalla Gran Bretagna sono state dormienti fino al 2014, ci sbagliamo: quello che molti stranieri ignorano è ciò che è successo a partire dagli anni Cinquanta del Novecento.
In quel periodo, infatti, si era ricominciato a parlare tra gli scozzesi di indipendenza da Londra: molti dicono che questo “ritorno in auge” degli indipendentisti era dovuto alla disoccupazione, una delle più importanti conseguenze della Seconda Guerra Mondiale e della caduta del British Empire.
Le intenzioni hanno cominciato a materializzarsi sempre più quando, alla fine degli anni Sessanta, vengono scoperti dei giacimenti petrolio nel mare del Nord e (anche) quando la Gran Bretagna, nel 1973, ha aderito alla CEE.
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Non bisogna aspettare molto tempo per parlare di referendum volti alla conquista dell’indipendenza scozzese: nel 1978, infatti, il governo laburista ne ha convocato uno a riguardo di un possibile decentramento del governo. Nonostante l’importante mole di voti, i numeri non erano abbastanza.
Per poter avere un esempio di risultato avvincente, si deve spostare lo sguardo al 1997, quando il nuovo partito laburista si è servito del referendum per ottenere un parlamento decentralizzato da Londra: la Scozia si è dichiarata a favore e, due anni dopo, nel 1999, la Regina Elisabetta II ha aperto il primo parlamento scozzese in oltre 300 anni, permettendo alla Scozia di prendere la maggior parte delle decisioni locali ad Edimburgo.
Oggi, ventidue anni dopo, nelle ultime settimane, specialmente dal 6 maggio 2021, si può parlare del referendum per la secessione come una realtà piuttosto che di una semplice ipotesi.
Con la vittoria alle elezioni di Nicola Sturgeon e del suo partito, il SNP (Scottish National Party), si è riferito che gli scozzesi andranno alle urne non appena la situazione sanitaria lo acconsentirà (in ogni caso, entro il 2023).
La Scozia resta comunque un paese diviso a metà, se si tratta della questione dell’indipendenza da Londra, soprattutto in questo ultimo periodo, in cui le priorità sono cambiate dopo la pandemia da Covid-19.
L’uscita della Scozia dalla Gran Bretagna, infatti, non determinerebbe solo la composizione del nuovo emiciclo edimburghese, ma anche i futuri equilibri dell’intero United Kingdom.
Questo spiega perché a Downing Street vi è preoccupazione: secondo il Ministro di Gabinetto Michael Gove, “non molti governi sopravvivono alla frantumazione del proprio paese”.
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A Johnson non resta molto altro che concentrarsi sulle manovre di crescita economica, che risulteranno determinanti per molti aspetti (non solo nell’ambito finanziario): in caso di fallimento, infatti, si teme che le preoccupazioni non proverranno solo dalla Scozia, ma potrebbero giungere anche dal Galles e dall’Irlanda del Nord.
In questo quadretto troviamo, dunque: da una parte, la Scozia e gli indipendentisti del SNP, al quarto mandato di fila e vincitori di quasi la maggioranza dei voti (manca loro un solo seggio per la maggioranza assoluta); dall’altra troviamo i conservatori britannici e Boris Johnson, che hanno intenzione di ostacolare e posticipare, laddove è possibile, il processo di secessione, nella speranza che, a furia di rimandare, vengano rimarginate le fratture causate dalla Brexit, evitando la frantumazione del paese.
Si può dire che non resta altro che attendere che i leader dei Paesi del Regno Unito risolvano le priorità per la ripartenza (dunque la ripresa economica e le conferenze sul clima), e poi si potrà vedere cosa succederà tra la “first minister” Sturgeon ed il Prime Minister Johnson, senza dimenticare, però, che l’ultima parola sulla concessione del referendum scozzese spetta a Westminster.
di Benedetta Ghio
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