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Il genocidio culturale degli Uiguri

Cosa accade davvero nei lager cinesi


Di recente molti quotidiani hanno pubblicato notizie riguardanti la popolazione degli Uiguri, uno dei 56 gruppi etnici riconosciuti dal partito comunista cinese che abitano la regione autonoma dello Xinjiang a nord-ovest della Cina. Questa popolazione è di religione islamica sunnita e prima dell’inizio delle persecuzioni era l’etnia più diffusa dell’area. Gli Uiguri iniziarono a chiedere la propria indipendenza al regime cinese a seguito delle spinte secessioniste dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ma essendo lo Xinjiang una zona ricca di risorse e fondamentale sia a livello geopolitico che economico, i cinesi iniziarono a reprimere le ambizioni d’indipendenza del popolo con modalità violente non curandosi dei diritti fondamentali dell’uomo.


Negli ultimi anni sono iniziati a circolari video che rimandano alle strazianti immagini impresse nella nostra mente della partenza dei vagoni della morte diretti ad Aushwitz.

Questi video però hanno come protagonisti la popolazione degli Uiguri bendati e disposti in fila mentre vengono fatti salire su un treno. La loro destinazione sono campi definiti dal governo cinese di “rieducazione” dove i deportati sono obbligati a lavori forzati, alla sterilizzazione e a una minuziosa sorveglianza di massa. Le donne uigure vengono rese sterili tramite la somministrazione di anti contraccettivi senza la loro volontà o definitivamente con operazioni chirurgiche, in caso di gravidanza esse sono costrette ad abortire.



Tutto ciò sta avvenendo davanti al negazionismo del governo cinese e all’indifferenza di molte nazioni che evitano di condannare la persecuzione delle minoranze uigure al fine di proteggere i propri interessi economici nei rapporti con una delle principali potenze mondiali. Un esempio è il commercio del cotone, infatti un quinto del cotone venduto a livello mondiale proviene dai lavori forzati imposti agli Uiguri. Se i governi non condannano il problema uiguro allora è il consumatore che deve controllare la provenienza del prodotto e cercare di non incrementare questo meccanismo di sfruttamento scegliendo di acquistare prodotti anche ad un prezzo più alto ma creati in condizioni sicure e che rispettano i diritti dell’uomo.


La verità però sta lentamente emergendo grazie ai rapporti delle Nazioni Unite e, più di recente anche la Camera dei Rappresentati degli USA si è fatta carico del problema con l’emanazione di una norma che vieta l’importazione di merce realizzata tramite il lavoro forzato degli Uiguri.

Tra le grandi multinazionali messe sotto accusa c’è anche il colosso della moda “Inditex” che comprende grandi marchi come Zara, Pull and Bear, Oysho, Bershka e Stradivarius. La multinazionale ha negato di avere legami con l’azienda cinese che possiede diverse fabbriche accusate di sfruttare i lavoratori eppure un database pubblico dell’Institute of Public and Environmental Affairs cinese documenta tale relazione.

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Come consumatori è importante che sia nell’interesse di tutti fermare questa persecuzione, sia per placare la sofferenza di un popolo che come unica colpa ha quella di credere in un Dio considerato “sbagliato” e sia per non indossare più merce creata da persone ridotte in schiavitù.


di Camilla Ginelli

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