Un tentativo di tratteggiare il volto della “Generazione Z”, tra ambizioni, vittorie e ingenuità.
Uno dei motti del movimento studentesco del '68 era "non credere a nessuno sopra i 30 anni": il segno di un conflitto generazionale, di una distanza incolmabile tra l'eredità dei padri e i sogni dei figli. Quella stessa distanza è forse visibile anche oggi, in termini di valori, visioni del mondo e della società, ambizioni di rinnovamento portate dalle generazioni più giovani, rispetto al mondo che è stato affidato loro.
A lungo descritta come presuntuosa e "sdraiata", la “Generazione Z” da qualche anno si è fatta portavoce di nuovi valori e ideali per il futuro. Ad essa appartiene anche chi scrive: in prima persona vorrei abbozzarne i lineamenti, almeno di quella parte che si è fatta protagonista delle manifestazioni e delle battaglie sociali più recenti.
Il periodo storico in cui siamo cresciuti ci ha permesso di sviluppare una prospettiva fortemente cosmopolita. Il mondo ci appare aperto, senza frontiere, tanto che viaggiare per migliaia di kilometri sembra normalità; le città metropolitane in cui viviamo sono un crocevia di gruppi etnici; conosciamo musica, arte, cibo, vestiario, tradizioni, religioni da tutto il mondo e con i social il nostro sguardo si è ampliato ancora di più, fino a toccare la vita di persone dall'altra parte del mondo. L'ideale democratico del confronto, del dialogo e della diplomazia si è radicato profondamente nel modo in cui vorremmo i rapporti tra culture, tanto da portare, spesso, al rifiuto del pensiero unico autoritario e dell’etnocentrismo. Crediamo nella scienza e nelle sue conquiste, opponendoci al complottismo e alla superstizione; abbiamo un contatto strettissimo con la tecnologia. Per natura, potremmo dire, immaginiamo la realtà complessa e variegata, impossibile da racchiudere in un'unica spiegazione; così anche la società, che appare ricca di diversità da proteggere: molti, per questo, si sentono politicamente vicini alla sinistra democratica, almeno nel suo ideale di equità sociale.
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Credo che le nostre aspirazioni siano, in gran parte, espressione di un desiderio di libertà. Non vaga e idealista, ma concreta libertà da convenzioni, tabù e pregiudizi culturali incarnati da quelli che chiamiamo "boomer". Formalmente, il termine indica la generazione (decisamente "sopra i 30 anni") nata durante il "baby boom" dopo la fine della guerra, ma in poco tempo ha iniziato a definire tutti coloro (anche giovani) che dimostrano di avere prospettive chiuse e miopi, ancorate al passato, tanto da opporsi o mostrarsi indolenti al cambiamento culturale della modernità.
La nostra identità di generazione si basa, per converso, sull'appoggiare questo cambiamento, che investe diversi aspetti della società: la realizzazione personale, il ruolo delle donne, l'amore, la sessualità, la multietnicità, la salute mentale. Come sappiamo, in questi ambiti hanno preso forma diversi movimenti, alcuni globali ed epocali come Black Lives Matter, MeToo o i Pride della comunità LGBTQ+, che si sono mobilitati a favore di diritti e giustizia sociale, trovando grande risonanza globale proprio grazie a Internet e ai social.
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Idealmente, l'obiettivo da raggiungere sarebbe una collettiva "sospensione del giudizio": vorremmo che ciascuno avesse la libertà di esprimersi, trovare la sua identità, senza che ci sia alcun costume o etica condivisa che stabilisca cosa è "accettabile" per tutti. Per questo proviamo indignazione di fronte ai residui di moralismo (spesso religioso) e di discriminazioni in base al genere, all'orientamento sessuale o all'etnia che ancora resistono nella nostra società: perché hanno la pretesa di imporre una visione passata del mondo, che non condividiamo più e rifiutiamo.
Ma le spinte libertarie della nostra generazione hanno investito anche altri campi. L'allarme della scienza riguardo al “climate change” è stato accolto dai giovani di tutto il mondo che, sotto la bandiera di Fridays for Future, hanno manifestato per portare all'attenzione dei governi una necessaria esigenza di rinnovamento. Immediato, perché la Terra (e il nostro futuro) è già in pericolo; ma anche radicale, andando a rivoluzionare il nostro stile di vita e il sistema di produzione capitalistico: l'accusa, forse ingenua, metteva in discussione i fondamenti della nostra civiltà dei consumi, improntata sul profitto e sull'egoismo a tal punto da logorare irresponsabilmente quella stessa natura che ci concede la vita. Quale futuro possiamo immaginare in un pianeta destinato all’esaurimento delle proprie risorse? E per quanto l’ambiente potrà ancora sostenere il nostro stile di vita? Queste le domande che sono state sollevate. La risposta del mercato mondiale, che ha iniziato a promuovere prodotti più sostenibili, non è paragonabile al desiderio di profondo rinnovamento che era nelle intenzioni di Fridays for Future.
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Come si è detto, le nostre battaglie si legano a un cambiamento culturale, sociale e (alcuni vorrebbero) economico già iniziato. Ad esempio, i referendum del Partito Radicale negli anni '70 testimoniavano gli albori di una trasformazione dei costumi nella società italiana. Oggi è diventato il processo storico che più di tutti caratterizza la nostra epoca, lo "zeitgeist" che si manifesta ovunque: pubblicità, spettacolo, cinema, moda si fanno promotori di una società più aperta e inclusiva, di un'economia digitale ed ecologica, e la nostra generazione ne è l'indiscussa portavoce.
Ma essere dalla parte "giusta" della Storia comporta diverse contraddizioni. In primo luogo il conformismo, che è il vero motivo della grandissima partecipazione alle manifestazioni ambientali e sociali: chi è indeciso, o non interessato a questi temi, fa presto a capire da che parte stare. Il perbenismo, ad esempio dell’”Effetto Netflix”: introdurre a forza temi sociali nei propri prodotti per rispecchiare (con grande superficialità) i nuovi valori di oggi. Ma anche l'eccesso di zelo, l'ideologia: definire a priori la società come misogina, patriarcale o razzista, ridurre la modernità al libertinaggio, arrivare persino a censurare il passato (in modo anche estremo, come la distruzione delle statue di Colombo in America) e il presente tramite la "cancel culture".
Nessuna di queste problematiche sminuisce i propositi che ci siamo imposti, tuttavia non dobbiamo farci travolgere dall’idea di progresso che vogliamo incarnare: i nodi da sciogliere sono molti, e sarà la strada che intraprenderemo a decidere il mondo che verrà.
di Giovanni Nannini
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