Negli ultimi giorni di agosto l'Afghanistan è sembrato oscillare tra il deja-vù e la fine di un'epoca: quasi come vent'anni fa abbiamo avuto la cronaca scossa da un attentato sanguinoso, il 26 agosto, costato la vita a numerosi americani (certo non paragonabile all'11 settembre), attuato da un gruppo terrorista islamico che ha base proprio in quel paese. Allo stesso tempo, però, quello stesso paese porta sulle sue spalle quarant'anni di guerra e due decenni di presenza militare straniera che è oggi terminata, aprendo le porte a un futuro di indipendenza.
Bush Jr. dopo la vittoria sull'Emirato afghano nel 2001, successiva all'arrivo delle forze armate statunitensi, proclamava una “responsabilità verso il popolo dell'Afghanistan...per un'era di diritti umani e dignità”. Oggi, Biden, dichiara invece che gli americani non andarono laggiù per promuovere la democrazia liberale, bensì per combattere il terrorismo. E anche qui si percepisce l'oscillazione tipica del paradosso: il terrorismo è una tattica militare, non uno stato, non un popolo, men che meno un'ideologia. Come si può farvi guerra? Forse si può quando scarseggiano i nemici: le campagne americane contro i gruppi islamici fondamentalisti avvennero in un'epoca (fine anni '90, primi anni 2000) detta “multipolare”, o quantomeno non più bipolare. Gli USA avevano vinto la Guerra Fredda e nessuna superpotenza poteva ostacolare la loro azione; fu in questo contesto che il Dipartimento di Stato americano avallò un'enorme rappresaglia per l'11 settembre, la “War of Terror”, che consistette sostanzialmente nell'invasione con conseguente crisi umanitaria ed economica di due stati dell’estremo Medio Oriente: Iraq e Afghanistan.
Giunti al presente ci si chiede quale sia stato il vantaggio strategico di tale azione: pur ammettendo che il Dipartimento di Stato non avesse avuto solo i moventi umanitari e “democratici” dichiarati ma anche dei fini economici “segreti” come, ad esempio, il controllo del traffico dell'oppio (ricordiamo che l'Afghanistan produce l'80% del papavero da oppio mondiale, materia usata anche per numerosi farmaci) che il Mullah Omar nel 2000 aveva fatto ridurre, oppure la costruzione dell'oleodotto TAPI per bypassare i monopoli energetici di Iran e Russia sul Caspio, cos’è stato ottenuto con queste guerre oltre al gettare nel caos l'intera regione, aprire le porte all'ISIS e avvicinare gli sciiti iracheni alla repubblica Iraniana? E ancora, come è possibile che dopo vent'anni di guerra e occupazione, oggi, sia rinato l'Emirato Islamico dell'Afghanistan per mano talebana, nemico e - giudicando dalle parole di Bush Jr - movente dell’invasione del 2001?
Innanzitutto occorre tenere presente la storia ma soprattutto la situazione sociale del paese: esso è – da sempre - uno stato ben poco centralizzato, dove la concezione stessa di appartenenza degli individui non è quasi mai alla nazione afghana, bensì al clan prima, alla tribù poi e all'etnia infine.
I talebani sono di etnia pashtun (il 40% della popolazione), la stessa degli abitanti del nord-ovest del Pakistan ove hanno sede le scuole islamiche radicali che hanno formato i loro mullah, e le tribù pashtun seguono uno specifico codice di leggi e tradizioni, il pashtunwali, che non è proprio delle altre principali etnie afghane, né dei tagiki del nord né degli hazara del centro. I talebani, poi, sono una parte dei pashtun, e godono del favore di costoro non solo per la loro fede islamica radicale ma prevalentemente per l'appartenenza etnica.
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Gli americani, preparando il loro ritiro, hanno siglato a fine febbraio 2020 gli accordi di Doha coi talebani, firmati esclusivamente con costoro senza includere il “legittimo” governo afghano. Gli statunitensi così hanno delegittimato quel poco che poteva esserci di solido nel regime di Kabul che per vent'anni avevano foraggiato e sostenuto, in quanto consapevoli che dopo la loro ritirata dal paese i talebani avrebbero sicuramente ripreso il controllo della quasi totalità della nazione. Per questo gli states hanno siglato l'accordo, pur mantenendo il piede in due scarpe: da una parte hanno dichiarato di rimanere dalla parte del loro alleato, il presidente Ghani, mentre al contempo barattavano il futuro dell'Afghanistan ai talebani per la promessa di, dopo il ritiro, impegnarsi a non foraggiare il terrorismo internazionale e rispettare per quanto possibile i diritti umani. Questa ambiguità è lampante già dal lunghissimo titolo dell'accordo firmato in Qatar:”Agreement for Bringing Peace to Afghanistan between the Islamic Emirate of Afghanistan which is not recognized by the United States as a state and is known as 'the Taliban' and the United States of America”, ossia “accordo per portare pace all'Afghanistan tra l'emirato islamico dell'Afghanistan che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come un stato ma conosciuto come 'Talebani' e gli Stati Uniti di America”. In questo prolisso titolo non trovano spazio né il governo di Kabul né le altre etnie del paese, di fatto relegate a subire il giogo dei talebani pashtun. Difatti, anche durante gli anni '90 del primo Emirato Afghano, alcune aree del centro e del nord erano rimaste saldamente in mano rispettivamente ad hazara e tagiki. Insomma, l'Afghanistan soffre della sindrome dei paesi nati coloniali, creati a tavolino senza rispetto per l'autodeterminazione dei popoli, e l'ingovernabilità dovuta a divisioni interne è il sintomo primo di questa malattia autoimmune. Per tale motivo l'esercito nazionale si è sciolto come neve al Sole appena iniziate in luglio le offensive dei taliban: composto anche da uomini pashtun, i cui capi clan e capi tribù (che non sono entità mistiche ma amici, parenti e conoscenti) avevano comunicato l'esito degli accordi di Doha, e si sapeva che tutto era già prestabilito: i talebani avrebbero conquistato il paese con l’assenso americano.
E quindi a che pro morire nell’esercito addestrato dagli americani se questi avevano già consegnato il paese ai nemici che siffatto esercito avrebbe dovuto combattere? Difatti abbiamo visto in primis le diserzioni dei militari e in secundis la comparsa di alcuni battaglioni di talebani armati, addestrati e vestiti come soldati occidentali o in grado di pilotare mezzi dell’esercito, che altro non sono che soldati afghani dopo aver cambiato casacca, come nel caso noto del battaglione Badri 313 delle forze speciali talebane.
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Quanto detto finora, tuttavia, concerne i due mesi passati. Cosa si prospetta per il futuro del paese?
Per rispondere è opportuno partire dall'attentato del 26 agosto rivendicato da ISIS Khorasan: la cellula terroristica ha compiuto l'attacco con un fine ben preciso: dimostrare come i talebani non siano in grado, pur avendo vinto, di preservare l'ordine nel paese, specie perché non hanno conquistato la vittoria sconfiggendo l'invasore occidentale, bensì accordandosi con esso.
Al di là delle differenze dottrinali dei due gruppi sunniti: l'ISIS con velleità di universalismo islamico, i talebani, invece, concentrati solo sull'Islam in Afghanistan, il pericolo che si intravede all'orizzonte porta il nome di guerra civile. Come già detto, il paese non è davvero unificato: in molti distretti, valli, province e villaggi non sono i talebani a comandare, esempio di ciò rimane il Panjshir, seppur la sua resistenza sia stata fiaccata il 5 settembre con l’aiuto dell’aviazione pakistana, per passare poi alle montagne del centro dove vivono soprattutto hazara. Se il regime talebano verrà minato da attacchi in questa delicata fase di consolidamento, il rischio di eccessivo fazionalismo diventerà concreto, e potrebbe portare a una vera crisi umanitaria ben più grave dell'esodo dei collaborazionisti degli americani che fuggono dai talebani. Finché c’era lo straniero da cacciare era facile fare fronte comune al di là delle differenze etniche e tribali, ma il futuro presenta incognite: la vicinanza di tagiki e hazara all’Iran e quella dei Pashtun al Pakistan già potrebbe essere motivo di divisioni, per non parlare dei rapporti che i taliban creeranno con la Cina, probabile partner di una ricostruzione ma anche stato che sta perseguitando gli uiguri mussulmani nello Xinjan, regione che con l’Afghanistan confina.
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È anche per questo che gli americani sgomberano il campo, perché, a loro modo di vedere, non c'è più nulla da fare in quel paese senonché andarsene e lasciare il vespaio afgano agli stati confinanti o a chi vorrà interessarsene: Pakistan, India, Cina, Iran, Turchia. In questo senso la conferenza stampa di Joe Biden tenuta alle 23.30 (GMT) del 26 agosto è emblematica. Il presidente è parso stanco e commosso per le vittime dell’attentato, ha dichiarato che i responsabili verranno trovati e puniti, ma quello che risaltava da tutto il discorso era l'ingombrante inadeguatezza dell'organizzazione americana nel gestire il ritiro. Annunciato a febbraio 2020, come mai è uscito così goffo, tardivo e rocambolesco? Se la decisione strategica di andarsene per concentrare risorse su problemi più importanti per l'America, ossia il contenimento della Cina è certo corretta, la realizzazione di questa è stata pessima e imbarazzante a livello di reputazione. Persino noi italiani, che spesso nelle azioni sul campo non brilliamo, abbiamo gestito un ritiro eccellente dei nostri collaboratori afghani utilizzando i Carabinieri, abituati a operare coi civili, sicché sono anche una forza di polizia. Difatti, tramite misure come gruppi whatsapp per comunicare e concordare l’abbigliamento per riconoscersi nella ressa abbiamo rimpatriato 5000 afghani, più di tutti gli altri stati europei e prima di questi. Concludiamo citando l'attacco preventivo contro due i attentatori ISIS del 29 agosto, uccisi da un missile americano che ha portato con sé anche otto bambini afghani, e vediamo come sia chiaro che l'esito di tutti questi vent'anni sia stato un fallimento di strategia, ideologia e reputazione del Dipartimento di Stato di Washington, abilissimo nel gestire il contenimento delle superpotenze ma assai meno nel comprendere i limiti e le conseguenze delle loro operazioni di polizia internazionale condotte in questo trentennio di multipolarismo.
di Stefano Mauro Forlani
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