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Trump e i Social, una damnatio memoriae moderna

Immagine del redattore: Giuseppe IrtoGiuseppe Irto

Aggiornamento: 23 gen 2021

Sono giorni di cambiamento, quelli che il mondo sta attraversando di recente. La democrazia americana prova faticosamente a rispondere all’occupazione armata e violenta del Campidoglio, velatamente incoraggiata dallo stesso Presidente uscente Trump.

Egli, incapace di accettare l’esito elettorale, sulla cui validità,(considerando i numerosi ricorsi mai andati a buon fine) , non possono più esserci troppi dubbi. L’accaduto si può definire “colpo di Stato” (fallito)? Oppure è stato un grande scherzo? Cosa si nasconde dietro le corna di bisonte? Scene comiche, anzi tragicomiche, considerate le cinque vittime.

Così, i grandi social network decidono di bloccare o rimuovere gli account di Donald Trump. Facebook e Twitter sono stati i primi ad agire, accusando Trump di aver incitato all’odio e alla violenza, tramite le grandi piattaforme digitali, violando così le norme della community.



Successivamente anche YouTube, Twitch e molti altri ancora hanno fatto la stessa cosa. Trump bandito dal mondo digitale, e sparite temporaneamente le sue tracce e le attività precedenti, è come se fosse condannato ad una moderna versione della damnatio memoria. Considerando, soprattutto, che la presenza nel mondo digitale costituisce, ormai, una grossa fetta dell’esistenza. Scomparire dai social per scomparire dal mondo.

È censura? Finalmente Zuckerberg e compagni hanno deciso di prendere una decisione di campo in nome della giustizia e della democrazia? Hanno fatto bene, oppure no? Sicuramente, è una decisione che non ha precedenti ma che dà vita ad una serie di conseguenze. Il web inizialmente era una giungla, e le piattaforme presenti permettevano la pubblicazione dei più disparati, controversi e liberi contenuti; il controllo era praticamente inesistente e la vita digitale era concepita come diversa, parallela, lontana rispetto alla vita reale.


Col tempo, le piattaforme, hanno iniziato a popolarsi e, insieme con il pubblico, è arrivata anche la pubblicità. Le aziende del web hanno quindi iniziato a guadagnare e hanno sentito, naturalmente, il bisogno di rendere più ospitali, ordinati e controllati i propri spazi, di renderli adatti ad accogliere gli inserzionisti. Così i creatori di contenuti presenti sui social si scontrano già da tempo con questi meccanismi di controllo, che a volte funzionano bene e altre meno. Oggi il mondo digitale è sempre più popoloso, quindi le piattaforme private sono sempre più pubbliche e la vita virtuale si fonde e si confonde con la vita reale.

Non esiste più una marcata differenza: Facebook è stato costretto a bannare Trump, poiché gli utenti chiedevano una presa di posizione e non prenderla avrebbe provocato un danno di immagine, che col tempo si sarebbe fatto sentire. Quindi è inevitabile che, in queste condizioni, sia necessaria un uguale vigilanza e attenzione, tanto alle azioni reali quanto a quelle virtuali. Inoltre, è altrettanto evidente, che nessun proprietario di azienda, digitale o reale, può trasformarsi in un giudice. Le attività private hanno il diritto di stabilire le proprie regole che però devono sempre inserirsi all’interno di un contesto ordinamentale “pubblico”, statale, che tuteli i diritti ma faccia rispettare i doveri.



Creare un contesto simile è però fortemente difficile, considerando che tutto il mondo usa Facebook, che rappresenta la più nitida realizzazione concreta del famoso concetto del “villaggio globale”, abitato da tutti e dentro il quale tutti agiscono… ma non tutto il mondo vive nello stesso “villaggio statale”. Ci sono tanti contesti ordinamentali pubblici, diversi tra loro, sui quali si inseriscono le regole private delle piattaforme: per alcuni l’azione di Facebook è censura e limitazione della libertà di espressione, per altri Facebook concede molte più libertà rispetto a quelle garantite dall’ordinamento pubblico del loro Stato.

In questo modo non ci sarà mai una sostanziale uguaglianza, alcuni potranno esprimersi più di altri, e quindi essere più influenti di altri. In un futuro lontano potrebbe esserci un “diritto digitale universale”, un ente di garanzia mondiale e le pene imposte sarebbero anni di chiusura degli account, un po’ come la reclusione odierna, e quindi limitazione della vita social(e). Una serie di Tweet ha incentivato (se non scatenato) un attacco alla sede del Parlamento statunitense e non sarà Zuckerberg, come si è capito, a salvare la democrazia.

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