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Il giornalismo in Italia: potere e interessi economici

Bianca Sirri

"Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero

con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure"


Così recitano i comma 1 e 2 del ventunesimo articolo della nostra Costituzione, facendosi portavoce di quella precisa volontà dell' Assemblea Costituente di legittimare chiunque ad esprimere in totale libertà il proprio pensiero, ma soprattutto a garantire un'informazione veritiera e senza vincoli a tutti gli individui. Oggi è però impossibile non considerare questi vincoli, che sono diventati sempre più lampanti e malinconicamente avvilenti; non a caso la classifica World Press Freedom Index - una classifica annuale il cui focus è la situazione della libertà di stampa di ciascuno stato- stilata da Reporter Without Borders nel 2020 vede l'Italia occupare un lontanissimo 41° posto, in coda non solo a tutti gli altri paesi europei, ma anche a paesi dalla democrazia meno consolidata della nostra, dove situazioni economiche precarie porterebbero a immaginare un'instabilità anche sul versante dell'informazione, come gli africani Namibia, Ghana e Burkina Faso.



Sorge allora spontaneo domandare dei motivi di questo problema, l'esistenza del quale è ormai pacifica non solo ai nostri occhi.                                                                                                                                             Innanzitutto, a indebolire la credibilità del giornalismo italiano è il suo rapporto subordinato al potere: un giornalista, nell'incontrare un uomo politico o una figura autorevole, viene fornito di una storia, che riproduce piuttosto fedelmente ed in maniera acritica: non si preoccupa di scavare più a fondo, di individuare eventuali discrepanze fra la realtà dei fatti e le informazioni ricavate, di fare "watchdog", per contribuire in qualche modo a migliorare l'ambiente politico sottoponendolo a critiche costruttive. In Italia c'è sempre stato un rapporto di affiliazione fra stampa ed ideologia, secondo il quale i giornali hanno sempre assecondato, e continuano ad assecondare, i gusti e le volontà di chi li finanzia. Nessuno pretende un giornalismo d'inchiesta alla "mudcrackers", ma in Italia manca proprio quell'unità della stampa, che prescinde qualsiasi ideologia, fazione o finanziatore che sia, che sembrano invece possedere, ad esempio, i giornalisti americani o inglesi, dove dichiarazioni di attacco da parte di un politico che propone una versione della realtà menzognera o manipolata, o che rischia di portare ad abusi di potere, è immediatamente zittita dalla stampa unita e coesa, che si pone come unico obiettivo la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini.



A questo prima problema se ne aggiunge un secondo, non meno rilevante, legato alla dipendenza economica della stampa. I giornali per vivere hanno bisogno di vendere copie ai lettori, e dunque per riuscire a galleggiare nel mare del libero mercato preferiscono assecondare le preferenze degli affezionati acquirenti della carta ingiallita - il cui numero è in drastica riduzione data la crescita esponenziale di altri canali di informazione via internet - persino a costo di svalutare la qualità delle informazioni che scelgono di pubblicare.


La soluzione, quantomeno parziale, a un problema di questa portate sembra ancora lontana per l'Italia, dove la scarsa indipendenza economica ed ideologica delle testate giornalistiche difficilmente riuscirà a vincere il rischio di servilismo e annichilimento della capacità critica, due caratteristiche che non dovrebbero essere proprie del concetto di libera informazione. Se consideriamo poi che un giornalismo sano ed indipendente, capace di portare i cittadini ad una conoscenza dei fatti veritiera e non parziale, è anche termometro del buon funzionamento della democrazia, l'esigenza di un'evoluzione sotto questo aspetto appare auspicabile, se non necessaria.


di Bianca Sirri
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